Massimo Blasoni annuncia una nuova apertura

Sereni Orizzonti

Una nuova e moderna residenza sanitaria per anziani dotata di 90 posti letto è in fase di progettazione nel comune di La Loggia a sud di Torino. La fine dei lavori è prevista per Luglio 2022

 

 

 

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La Sereni Orizzonti di Massimo Blasoni cresce ancora

La nuova struttura di Sereni Orizzonti sarà operativa a fine 2021 e potrà ospitare fino a 120 anziani non autosufficienti.
Per maggiori informazioni visita il sito www.sereniorizzonti.it

 

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Semplificazione, liberalizzazioni e privatizzazioni

Tratto dal libro “Privatizziamo! Ridurre lo Stato, liberare l’Italia” di Massimo Blasoni

La concezione dello Stato basata su una visione eccessivament formalista è talmente radicata da rendere difficile, per la maggior parte di noi, ipotizzare un modello diverso, più semplice, in grado di servirci meglio. La privatizzazione di uffici e servizi pubblici è oggetto del capitolo che segue. Qui ci si sofferma brevemente sulla semplificazione amministrativa, nonché sulle liberalizzazioni e sulle privatizzazioni delle partecipazioni pubbliche in imprese. Dalla più banale azione quotidiana alle complesse relazioni industriali o fra istituzioni e organismi, quasi tutto è esageratamente regolamentato e spesso in modo cervellotico. Vi sono innumerevoli professionisti che traggono il loro sostentamento dall’interpretazione dei regolamenti, qualche volta quasi sovrastrutture a quello che potrebbe essere semplice. Accanto ai tradizionali avvocati e commercialisti, abbiamo così esperti certificatori e decrittatori di norme sulla sicurezza, sul lavoro e innumerevoli altri. Quante volte queste prestazioni paiono ridondanti, rese necessarie dall’eccesso e dalla complessità della produzione normativa? Stato, regioni e comuni legiferano e regolamentano senza sosta. Talora in contraddizione fra loro. La semplificazione dei procedimenti amministrativi è un’esigenza comune dei Paesi a economia di mercato a fronte dell’aumento di funzioni pubbliche e dell’enorme incremento delle regole e delle strutture volte al loro controllo. Regolazioni non necessarie, inadeguate, eccessivamente gravose in un contesto di competizione tra ordinamenti rappresentano costi e rallentamenti dannosi. Conferenze dei servizi, pareri obbligatori, certificazioni e una montagna di carte frenano lo start up e la vita delle imprese e anche dei cittadini. Di semplificazione si iniziò a parlare già dai primi anni del secolo scorso.
La prima Commissione per la semplificazione burocratica venne istituita nel febbraio 1918; era presieduta da Giovanni Villa e da lì a poco succedettero le Commissioni Schanzer e Cassis. Invece la prima legge di semplificazione fu battezzata da Bonomi nel 1921. Ma in tempi recenti semplificazione è diventata una parola d’ordine, anche se per lo più genera disordine. Vi fu un ministro per la Semplificazione (Calderoli), assistito da una Commissione parlamentare, da un Comitato interministeriale e da un’Unità governativa con la medesima funzione. Nel 1997 è stata introdotta la legge annuale di semplificazione, peraltro approvata soltanto quattro volte (nel 1999, nel 2000, nel 2003, nel 2005). Nel frattempo, numerosissimi interventi viaggiavano sui binari del decreto: per esempio il Semplifica Italia, varato da Monti nel 2012. Sostanzialmente senza risultati. Gli italiani sono abituati a richiedere permessi e a dover produrre certificazioni per ogni cosa: dal valore legale del titolo di laurea alla raccomandata.
E così ci si chiede se avrà efficacia formale una mail se non è pec… È indifferibile semplificare, ad esempio consentendo al cittadino di agire non sulla base di una preventiva autorizzazione a fare, ma con controlli successivi: non devo chiedere allo Stato il permesso di edificare, magari attendendo mesi, ma posso farlo nel rispetto della legge, salvo il controllo a posteriori. La complessità normativa e burocratica è un lusso che non ci si può permettere. Qui con il termine «complessità» ci si riferisce a molte e differenti cose. In primo luogo, a un sistema giuridico del tutto privo di chiarezza, ma soprattutto contraddistinto da una miriade di leggi e da una sovrapposizione di competenze che, in vari casi, permette abusi e arbitri. La legalità non si costruisce con l’ipertrofia legislativa, che al contrario genera proprio una fondamentale incertezza normativa.
La legalità si costruisce semmai con un ordine giuridico più semplice, chiaro, davvero al servizio della società. Vi è anche una complessità di livelli di governo (dal Presidente della Repubblica fino alle circoscrizioni cittadine o alle comunità montane) che esige da troppo tempo di essere superata. Bisogna
insomma ridurre l’articolazione e con essa la stessa presenza dello Stato, che per essere autorevole deve agire a supporto della società e non già rischiare di ostacolarne la crescita e la libera espressione.
La semplificazione amministrativa, le liberalizzazioni e la privatizzazione della partecipazione pubblica a imprese sono connesse poiché esaltano il ruolo della sussidiarietà orizzontale. Liberalizzare è necessario e significa sia abolire restrizioni – all’avvio di nuove realtà economiche, come all’accesso a mestieri o professioni – sia superare monopoli, soprattutto statali, garantendo condizioni favorevoli alla competizione. Il processo di liberalizzazione dunque attiene a più aspetti. Che si tratti però di superare un monopolio pubblico (come fu per l’energia o per la telefonia), di andare oltre al numero chiuso per i notai o le farmacie, o di semplificare l’apertura di nuove attività (si pensi agli esercizi commerciali), in ogni caso, eliminare le restrizioni favorisce lo sviluppo, l’occupazione e la concorrenza. Liberalizzare è anche proteggere i consumatori da contratti vessatori (banche, assicurazioni, poste, acquisti on line). Significa anche permettere di avviare iniziative che oggi sono ostacolate in vari modi e talora perfino vietate. Gli effetti delle liberalizzazioni determinano più spazi d’azione per ogni intrapresa, permettono l’arrivo di investimenti e imprese straniere, favoriscono una migliore articolazione e integrazione delle nostre aziende, assicurano una concorrenza più dinamica e meglio in grado di soddisfare i consumatori. In Italia, sul tema si è fatto troppo poco. L’ultimo a provarci, prima dei troppo timidi annunci del governo Renzi, è stato Mario Monti con il Cresci Italia, con risultati assai deludenti rispetto alle aspettative. La maggior parte delle misure previste sono state di fatto bloccate dai grandi gruppi d’interesse. Al di là della deregulation sugli orari di apertura e chiusura degli esercizi commerciali, si sono salvati da qualsivoglia deregolamentazione i tassisti e sono state poche se non nulle, le novità per le farmacie e gli ordini professionali. Eppure il tema delle liberalizzazioni è uno dei nodi fondamentali da affrontare al fine di ridare competitività a un Paese che conosce tassi di crescita troppo bassi, quando non negativi. In Italia si pagano di più l’acqua, i servizi professionali e i trasporti. Ciò, è evidente, a tutto detrimento della competitività delle nostre imprese e del potere d’acquisto dei nostri salari. Una piena liberalizzazione del settore dei servizi (dati Banca d’Italia) varrebbe 11 punti percentuali di pil. Questo è insomma il costo delle mancate riforme. L’Indice delle liberalizzazioni 2014 realizzato dall’Istituto Bruno Leoni ci consegna, infatti, una fotografia deprimente. L’Italia è tra gli ultimi Paesi europei, dietro a Grecia, Spagna, Portogallo e lontanissima dalla Gran Bretagna, top performer. Il nostro Paes è maglia nera in settori quali la televisione, i carburanti, le poste e il mercato del lavoro. Tutti settori che hanno in comune, nel nostro Paese, tanto la presenza di un operatore dominante in mani pubbliche quanto una regolamentazione oltremodo pervasiva a scapito della concorrenza.
L’Italia di oggi è certo diversa da quella che precedette gli anni Novanta. Si sono fatti passi in avanti: dalle assicurazioni sui mezzi di trasporto ai servizi bancari e finanziari ai trasporti aerei e ferroviari, passando per il gas e i servizi postali. Così pure con riferimento all’energia elettrica, ai medicinali e alla telefonia. Oggi occorre moltiplicare per dieci quei passi e con coraggio procedere per superare quelle rendite di posizione che ancora frenano la nostra economia. Anche perché un mercato più libero è uno strumento per ridistribuire
reddito assai più efficace di intricate operazioni fiscali. La determinazione invocata per le liberalizzazioni è necessaria anche in tema di privatizzazioni. Oggi più che mai, privatizzare la partecipazione pubblica a imprese dovrebbe essere un imperativo per qualunque governo di qualsivoglia colore. Le partecipazioni sono moltissime, da quelle statali all’ultima municipalizzata o consorzio e quasi sempre accumulano pesanti deficit e svolgono attività che ben poco rispondono a criteri economici (dall’Iri ad Alitalia) dovendo far corrispondere piuttosto la propria azione ai desiderata di politici e consigli di amministrazione di nomina politica. Certo si tratta di privatizzare non seguendo regole per così dire politiche: ci sono, infatti, due tipi di privatizzazioni. La privatizzazione normale è la semplice trasformazione dello status giuridico di un ente o di un’impresa di proprietà pubblica nelle svariate forme che può assumere una società di diritto privato. Questo, però, vuol dire che lo Stato può mantenere la maggioranza delle azioni avendo dunque il controllo direttivo della società. Diversa è la privatizzazione sostanziale o materiale, con la quale si determina un vero e proprio passaggio della titolarità della proprietà e, di conseguenza, del potere di controllo dalla mano pubblica a quella privata. Perché privatizzare? Perché quella stessa impresa, passata alla gestione privata, spinta dalle leggi di profitto, si dimostra generalmente in grado di generare un’amministrazione più attiva dinamica ed efficiente. Di perseguire scopi più redditizi per l’azienda, incrementandone profitti, ovvero risanando debiti e bilanci. La gestione privata produce anche benefici per i consumatori sotto forma di qualità del servizio e di riduzione dei costi. Nel nostro Paese si è privatizzato poco e, soprattutto, male. Il fine non è stato insomma migliorare la competitività di quelle imprese, piuttosto si è ceduta una parte delle azioni, ben attenti però a mantenere il controllo e il potere direttivo. Così è stato per Enel, Fincantieri, Finmeccanica e via dicendo. Il resto è storia recente. Consideriamo la privatizzazione delle Poste.  L’azienda verrà venduta senza separare il servizio postale tradizionale dal Banco Posta, cosicché i profitti del secondo continueranno a sostenere il servizio core e in modo certo non trasparente. Esattamente l’opposto di ciò che ha fatto Google quando ha creato Alphabet. E la privatizzazione delle Poste non è certo sostanziale. Il Tesoro manterrà il 60% delle azioni e imporrà, per il residuo, un tetto del 5% al possesso azionario.
L’obiettivo è quello di tenere lontani investitori istituzionali, ritenuti in qualche modo pericolosi. In vent’anni, secondo l’Istituto Bruno Leoni, lo Stato ha comunque incassato, grazie alle privatizzazioni, 127 miliardi di euro, eppure non ha approfittato di ciò per riconvertire e modernizzare l’economia italiana, o ridurre il debito pubblico. Le prime privatizzazioni italiane firmate Draghi e Amato (allora rispettivamente direttore del Ministero del Tesoro e Primo Ministro) datano 1992. A quell’epoca lo Stato controllava quasi interamente il sistema bancario e interamente quello ferroviario e aereo, le autostrade, il gas, l’elettricità e l’acqua, la telefonia, larga parte dell’industria siderurgica e altro ancora. Quel piano di privatizzazioni fu dettato dall’urgenza dei conti pubblici. Fu l’epoca delle grandi dismissioni bancarie e assicurative, dal Credito Italiano alla Banca Commerciale Italiana. Poi fu la volta di Ciampi, che trasferì Telecom Italia nelle mani di un gruppo di azionisti. Nel 1999 D’Alema privatizzò le autostrade, e porzioni di Enel, senza perderne il controllo però. Resta moltissimo da fare in fatto di privatizzazioni a partire dal convincimento, che va acquisito, che lo Stato non deve gestire le imprese. Oggi ci attende, tra le altre, la sfida di privatizzare – sostanzialmente e in toto – Poste, Ferrovie, Fincantieri, Enav, Enel, Eni. Non vi sono poi solo le società del Tesoro, ma anche le migliaia di partecipate di comuni, province e regioni, più volte menzionate.
Talvolta sono inutili o sono nate per dare una veste solo formalmente privata – vantaggiosa per maneggi politici – e andrebbero semplicemente chiuse. Negli altri casi è d’uopo privatizzarle: sono costate alla collettività 26 miliardi (relazione Corte dei Conti) nel 2014, pur rendendo servizi spesso inefficienti. Nella sola Sicilia le partecipazioni (nella veste di municipalizzate, consorzi, spa, agenzie, fondazioni e via dicendo) hanno registrato perdite per 117 milioni. Nello stesso anno in Abruzzo il risultato è negativo per 43 milioni,
come in Molise. Non si hanno esiti migliori nella maggior parte delle altre regioni e quando il risultato per le partecipate è positivo, spesso dipende da un monopolio a prezzi imposti. Così avviene, ad esempio, per le società regionali che gestiscono servizi informatici che obbligatoriamente devono essere acquistati da Asl e comuni senza alcuna possibilità di concorrenza per altri soggetti. Una precisazione: privatizzare correttamente non vuol dire nemmeno creare nuovi monopoli ancorché privati. Privatizzazioni e liberalizzazioni debbono procedere di pari passo. Infatti, consegnare il monopolio di un settore a un soggetto privato al posto di uno pubblico non risolverebbe i problemi. La concorrenza è altrettanto fondamentale per raggiungere i risultati che vorremmo in tema di qualità dei servizi e minor costo per i cittadini.

Massimo Blasoni

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No al gradualismo

Tratto dal libro “Privatizziamo!Ridurre lo Stato, liberare l’Italia” di Massimo Blasoni

Se la stella polare è Privatizziamo!, la situazione nazionale e mondiale richiede per l’Italia riforme che non possono prevedere gradualità. Senza la pretesa illuministica di piegare la realtà alle idee, ma con la convinzione che sia necessaria una immediata terapia d’urto.
Solo condizioni diverse (crescita, debito pubblico più contenuto, situazione congiunturale migliore) permetterebbero un approccio graduale ai temi. Ora non è possibile. Anche una ripresa generale dell’Occidente rischierebbe di non bastare al nostro Paese. È questa una premessa necessaria per comprendere lo spirito delle proposte contenute nei capitoli che seguono. È una premessa, tra l’altro, non pleonastica perché di norma nel dibattito le proposte sono roboanti, ma le effettive intenzioni sono timide. Quanti in ambienti politici o della tecnocrazia di Stato ritengono possibile una politica dei piccoli passi non hanno presente (o non vogliono considerare) la gravità della situazione. I governi Monti, Letta e Renzi ben poco hanno fatto tranne annunciare le riforme. Limitate azioni di riduzione del prelievo fiscale sarebbero un errore. Altrettanto lo sarebbero una modesta riduzione della spesa pubblica e una limitata semplificazione dei livelli istituzionali, del numero di regioni e comuni. Pensare con gradualità a liberalizzazioni, esternalizzazioni, privatizzazioni sarebbe un errore. Riformare un Paese con un intreccio di poteri così pervasivo come quello italiano richiede un’azione secca. Il rischio altrimenti è di una deriva contraria, che tende costantemente a riportare le cose al loro stato originario, o a declinare cambiamenti che in realtà nulla cambiano. Non c’è più tempo per un’azione lenta e per piccole modifiche. Le azioni graduali vengono sormontate dal più veloce succedersi dei nuovi eventi.

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Non c’è alternativa al capitalismo democratico

Tratto dal libro “Privatizziamo!Ridurre lo Stato, liberare l’Italia” di Massimo Blasoni

In questa fase storica di grave difficoltà economica e sociale, c’è allora bisogno che alle contraddizioni del centrosinistra quanti credono nella libertà individuale sappiano opporre una proposta forte nella consapevolezza che non esistono molti modelli a nostra disposizione e che ovunque – in Svezia, in Cina, nei Paesi dell’Europa postcomunista – quando si è voluto uscire da una condizione di difficoltà si è stati costretti a restituire spazio al privato, alla libera solidarietà, all’associazionismo, alla famiglia. Nonostante la crisi profonda che sta vivendo e proprio perché si fa forte la consapevolezza di opporsi a questo declino, la stessa Europa non va affatto verso il superamento dell’ispirazione liberale che l’ha fatta grande in passato. Appare anzi chiaro ai più che nulla di nuovo e interessante è stato inventato in alternativa al capitalismo liberale. Ci si può allora chiedere quale capitalismo, quale libertà, quale democrazia, ma non si può immaginare di fare a meno di tutto ciò. Proprio dopo il crollo delle ideologie stataliste di destra e di sinistra, delle Weltanschauung totalitarie che avrebbero voluto «salvare» l’uomo facendo dello Stato una sorta di religione secolare, restare fedeli alla libertà politica, economica e sociale significa restare fedeli alle condizioni che meglio ci permettono di affrontare e superare ogni difficoltà. Come insegna uno tra i massimi pensatori liberali del secondo Novecento, Robert Nozick, l’ordine giuridico liberale è una struttura aperta, che permette il coesistere di molte visioni. La società liberale è la costante riproposizione di un antico ideale di tolleranza, che lascia spazio a diversi modi di vivere e convivere, lavorare e studiare, pensare, pregare, immaginare il futuro. Nella sua modestia il liberalismo non pretende di salvare l’uomo e non gli dice in cosa credere: si propone soltanto di garantire una cornice giuridica che permetta a ognuno di noi di ricercare da sé, e con le persone che gli sono più care, il senso della propria esistenza. Ne consegue che questi principi della libertà e del pluralismo delineino un quadro valoriale in grado di tenere coese aggregazioni assai ampie. È questo che porta l’ispirazione liberale a porsi quale substrato di una vasta area (cattolica e laica, moderata e innovatrice,
conservatrice e riformista) che trova il proprio senso comune nell’esigenza di creare più spazi d’azione e iniziativa per individui, imprese, associazioni, comunità. Questa prospettiva è anche in grado di unire la tutela della libertà e una forte socialità. Un’economia aperta e concorrenziale è l’unica condizione strutturale in grado di permettere un buon funzionamento dell’ascensore sociale: di quel meccanismo che permette a giovani provenienti da famiglie modeste di salire a posti di responsabilità e diventare parte della classe dirigente. Mentre in una società statizzata e ultraregolata è facile il persistere di posizioni parassitarie (talune grandi aziende realizzano rendite per via politica, e non già perché soddisfino le esigenze del pubblico), nel libero mercato un’impresa resta leader solo se è ogni giorno premiata dai consumatori. Questo significa una cosa: la società liberale redistribuisce costantemente la ricchezza e il prestigio sociale, facendo emergere dal nulla i vari Bill Gates (Microsoft), Steve Jobs (Apple), Larry Page e Sergey Brin (Google), Mark Zuckerberg (Facebook), Howard Schultz (Starbucks), Michael O’Leary (Ryanair), e via dicendo. In questa economia al servizio del consumatore e delle sue esigenze, nessuna posizione è mai acquisita per sempre ed è tutto questo che favorisce lo sviluppo, gli investimenti, la ricerca, l’innovazione.

Massimo Blasoni 

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Contro il totalitarismo e contro lo statalismo

Tratto dal libro” Privatizziamo!Ridurre lo Stato, liberare l’Italia” di Massimo Blasoni

In effetti, alcuni temi del liberalismo sono ormai pressoché universalmente accettati: anche da quanti si dicono avversi alla cultura liberale: dal pluralismo, al mercato concorrenziale, alla democrazia. Fatta salva quell’autonomia personale che in un certo senso nessuno mette più in discussione, oggi la vera competizione è tra liberalismo e socialdemocrazia, con quest’ultima nettamente orientata a fare proprie le tesi economiche di Keynes e della spesa pubblica. Meglio Hayek e la sua convinzione che i limiti della ragione umana finiscono per condannare ogni pretesa di costruire una società programmata dall’alto. Sono più consone le idee dell’economista austriaco alla sfida del nuovo millennio e alla patente esigenza di ridurre il debordante primato dello Stato. In questo senso, il liberalismo è oggi più valido che mai perché focalizza l’attenzione sull’individuo e valorizza l’umanità in quanto ha di specifico. È anche significativo che dopo l’ubriacatura statalista del secolo scorso, oggi nessuno sia più disposto a proporre uno Stato proprietario dei mezzi di produzione. Su questo punto la critica liberale al socialismo ha conseguito un successo definitivo. Resta però ancora una profonda differenza tra l’impostazione liberale e quella socialdemocratica. Il modo in cui queste due teorie politiche guardano alla società è assai diverso nel definire il rapporto dell’individuo con lo Stato, con la scuola, con il lavoro e con la libertà di impresa.
Questa diversità talvolta può essere minimizzata dal sistema dei media e anche, e soprattutto, da talune ambiguità degli attori politici in campo, ma resta ed è decisiva. Senz’altro è vero che i partiti di sinistra hanno conosciuto notevoli cambiamenti. Non solo è molto lontano il Pci di stretta osservanza sovietica di Palmiro Togliatti, ma perfino l’eurocomunismo di Enrico Berlinguer, che ancora immaginava possibile una revisione del marxismo. Quelle tesi sono fuori gioco, perché sono i valori della libertà che si sono definitivamente affermati. Per questa ragione anche l’area detta «progressista» in qualche modo oggi deve fare i conti con il mercato capitalistico. Il coesistere di nuove propensioni
vagamente liberali e antiche attitudini stataliste genera però un «ircocervo»: che spicca per la sua incoerenza. E d’altra parte solo a questo può portare la convivenza nella medesima sinistra di Matteo Renzi e Susanna Camusso. Questo ci dice che in Italia non si può certo chiedere alla sinistra di giocare un ruolo autenticamente riformatore in senso liberale. Il passato dell’area liberale, popolare e moderata è allora un patrimonio da valorizzare: qualcosa da conoscere e riscoprire. C’è ad esempio la necessità di tornare a leggere le pagine di Luigi Sturzo contro la malabestia dello statalismo o quelle di Luigi Einaudi a difesa del ruolo sociale delle classi medie, del risparmio, della piccola iniziativa privata. Questo lavoro di recupero e il giusto orgoglio riguardo alle proprie radici però non bastano. Bisogna anche sapere leggere con onestà la storia dei liberali e dei moderati riconoscendo i troppi errori compiuti, i troppi tradimenti, le numerose timidezze. In vari casi, le forze politiche moderate non sono state davvero all’altezza, soggiacendo allo spirito dei tempi. È significativo che questo fosse in parte vero già ai tempi di Sturzo, se si considera che quando l’anziano sacerdote siciliano fu fatto senatore a vita, scelse di aderire al gruppo misto, in polemica con la Democrazia Cristiana, che avvertiva ormai lontana dai suoi ideali.

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L’identità va difesa

Tratto dal libro”Privatizziamo!Ridurre lo Stato, liberare L’Italia” di Massimo Blasoni 

Ai temi europei fa da sfondo un quadro più ampio, globale, caratterizzato non solo da questioni economiche, ma anche e soprattutto da una trama in cui si intrecciano ragioni politiche e culturali. Le tensioni a est in Europa, il rapporto con l’Islam, i flussi di immigrazione e la stessa trasformazione del tessuto sociale (quell’insieme di etnia, storia e tradizioni) ci segnano profondamente. Alla propensione revanscista ed espansiva dell’Islam politico, al suo aggregarsi su basi tradizionali e d’integralismo religioso, ad esempio, si è di norma risposto con il multiculturalismo, convinti che la convivenza potesse reggersi su due pilastri. Il primo: la tolleranza.
Rispetto alle comunità islamiche ma anche ad altre in Italia non si pretende l’integrazione, ma si pensa che accettare pienamente le diversità possa garantire l’assenza di conflitti. Anche se questo comporta la rinuncia ad alcuni aspetti identitari, come a una parte delle nostre tradizioni. La tolleranza assunta a monumento non basta, però, se molti di quelli che ci stanno di fronte pensano che ci siano degli spazi da occupare, che il proprio obiettivo etico sia l’islamizzazione del mondo. Ovviamente va sostenuto il principio di eguaglianza, ma è ben diverso pensare che in uno Stato a maggioranza cristiana le minoranze possano liberamente professare la propria religione piuttosto che togliere i crocifissi dalle classi in omaggio alla parità. Così come è diverso insegnare religione cattolica, riconoscendo il diritto a un diverso o a nessun credo, dal pareggiare tutte le religioni in omaggio a un politically correct portato al parossismo. Il timore di conculcare l’altrui libertà e di apparire razzisti sfiora talvolta il paradosso. Insomma, come se il più forte, il più esperto dovesse in ogni caso rinunciare a qualcosa di sé in omaggio alla pace con il più debole, ma risoluto. Saremmo altrettanto tolleranti con l’insistente venditore di strada se fosse italiano? C’è qualcosa che non funziona se la sola tautologia insita nel definirsi bianco finisce per essere percepita come una forma di allignante razzismo. E c’è da chiedersi se più che rinunciare a qualcosa di sé, chi ospita non debba pretendere passi concreti verso l’integrazione da parte di chi viene ospitato. Il secondo pilastro riguarda il ruolo salvifico delle regole. Vi è la convinzione che la convivenza di molteplici culture senza assimilazione possa reggersi sulla base di regole neutrali e accettate da tutti: la democrazia, la parità dei sessi, l’uguaglianza di fronte alla legge, l’imperativo categorico di non uccidere. La condivisione insomma di un quadro valoriale «naturale» come garanzia per la coesistenza di etnie diverse. Si sbaglia però a vedere le regole come valori universali e non già come il prodotto di valori storici propri di certe culture e non di altre. Perché pressoché non ci sono valori assoluti e condivisi o, meglio, la storicizzazione di questi valori ha prospettive e punti di vista diversi. Dati per la nostra società ormai acquisiti (l’inaccettabilità dell’infibulazione o della lapidazione delle adultere prevista dai codici in Iran) non lo sono invece per altre. La nostra prospettiva giusnaturalistica che teorizza diritti umani connaturati agli individui che precedono ogni struttura statale non è quella buddista, induista o del socialismo reale. E non si tratta di aspetti meramente culturali: l’asseritamente acquisita laicità dello Stato ha come contraltare l’islamismo costituzionale di più Paesi arabi. La stessa idea di democrazia va cambiando e non rappresenta un modello prevalente nel mondo. Nemmeno il diritto alla vita resta un valore assoluto. A riprova si pensi che, in seno alla nostra stessa comunità, temi come l’aborto, l’eutanasia o la pena di morte non hanno risposte univoche nel tempo e nei diversi Paesi dell’Occidente.
I due pilastri non reggono perché non ci sono regole astrattamente condivise. Il multiculturalismo funziona solo sulla precondizione che due culture siano entrambe decise ad accettare l’altra e non a convertirla. E restando alla compresenza di culture nel medesimo territorio nazionale, anche posta la reciproca accettazione, resta il problema che non si sta parlando di comunità chiuse e ognuna impegnata a seguire le proprie regole non interferendo con quelle altrui. La commistione, nella vita di ogni giorno, tra gli uni e gli altri è ovviamente costante. E non possono esserci due leggi (monogamia/ poligamia) o leggi che astrattamente rispettino ogni aspetto di culture così profondamente diverse. Nella storia più o meno recente si è assistito a un deficit di tolleranza. Spesso le regole sono state poste da chi ha vinto e con la forza. Vae victis. Non è certo questa la strada. Oggi si è assunta una posizione quasi opposta però. È lecito chiedersi se non sia preferibile un modello che coniughi il rispetto per la cultura di chi viene, con l’esigenza di porre in atto misure volte all’integrazione. La conoscenza della lingua e l’accettazione di principi base di cittadinanza
come condizione per la permanenza. Tutto questo non è poco liberale. Perché se è vero che non va conculcata la libertà altrui, è altrettanto vero che va preservata la propria. È necessario il patto sociale, con cui l’individuo accetta di sottrarre qualcosa alla propria potenzialmente illimitata libertà a beneficio di regole, di leggi democraticamente stabilite. Uscire dalla crisi è per noi anche assumerci la responsabilità di affermare queste regole. Per diventare cittadini di un nuovo Paese, pur senza perdere la propria libertà, occorre fare intimamente propri alcuni tratti culturali del Paese ospitante e rispettare (non solo formalmente) le scelte democraticamente assunte. Ci sono democrazie pigre, altre più vivaci e autorevoli. Sono preferibili le seconde.

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L’Europa

Tratto dal libro “Privatizziamo!Ridurre lo Stato, liberare l’Italia” di Massimo Blasoni

Occorre affrontare senza timore il tema delle modalità della nostra partecipazione all’Europa. Dall’euro abbiamo tratto sia vantaggi che svantaggi, ma occorre riconoscere che ben difficilmente potremmo reggere l’uscita da un’unione monetaria in cui forse piuttosto sarebbe stato necessario entrare in maniera diversa. Non abbiamo, né sul piano politico né su quello economico, la forza di una partecipazione simile a quella inglese: dentro l’Unione ma con valuta e banca centrali e nazionali. Né abbiamo per ora dimostrato tra i Paesi dell’area euro il peso politico necessario a un’azione realmente incidente. Questa Europa sembra molto più la proiezione della Germania che dell’Italia e, fatto ogni atto di contrizione per i nostri errori, che questo per il Paese sia un bene è tutto da dimostrare. Occorre uscire dal paradosso che ci vede stretti tra l’impossibilità di uscire dall’euro (pena spread e inflazione altissimi) e politiche di eccessiva stabilità e, tutto sommato, di forte apprezzamento della moneta rispetto alle altre valute: parametri che obiettivamente sembrano più congeniali ad altri partner europei. Certo, la Bce ha svolto di recente un ruolo più espansivo ma solo da quando la sua azione è diventata improcrastinabile. È necessario rendere più incisiva la nostra partecipazione al consesso europeo perché l’Europa sia un po’ più congeniale all’Italia e il nostro ruolo sia meno pletorico. Questo senza dimenticare l’entità del nostro debito pubblico o l’esigenza di rivedere completamente l’efficienza della nostra spesa. Rilanciare il Paese prescindendo da una riflessione sul suo rapporto con l’Unione e sull’interazione della nostra economia con l’euro è improponibile. Per quanto ne condividiamo lo spirito, è difficile non esprimere dubbi sull’Europa che oggi conosciamo. In sé non è liberale un modello che ha contestualmente parametri comuni obbligati (come la moneta) e grandi differenze con riferimento al costo del lavoro o all’imposizione fiscale nei singoli Stati. O la competizione è caratterizzata da piena libertà su tutto o l’asimmetria non ci pone nell’alveo liberista. L’inflazione che ricorda Weimar in Germania per converso potrebbe – entro ragionevoli limiti – essere utile per l’Italia, proprio per il suo enorme debito. Allo stato dei fatti, almeno. Stabilità o sviluppo? Il modello Fed dopo Lehman Brothers, con un elevatissimo impegno del Tesoro americano, o la Bce come si è comportata sino al 2013? Quanto al qe, che in effetti rappresenta un parziale cambio di rotta della Banca Centrale Europea, è tutto da dimostrare se il suo intervento sul mercato secondario dispiegherà i suoi effetti anche sulle nostre famiglie e imprese o principalmente su sistemi creditizi
ed economico-industriali più forti. Insomma, se il sistema bancario italiano è sottocapitalizzato e le imprese hanno basso merito creditizio, il rischio è che quel fiume di denaro prenda altre vie. È prefigurabile in queste condizioni il rilancio dell’economia in Italia? Certo, la debole crescita con tassi Bce prossimi allo zero dimostra che non è sufficiente la politica monetaria. E anche gli effetti di una doverosa contrazione della spesa pubblica rischiano di essere minimi. La spending review dovrà generare risorse che di fatto verranno destinate alla contrazione del debito sulla base degli accordi europei di fiscal compact. Sarebbe più utile che i minori costi generati dalla revisione della qualità e dalla quantità della nostra spesa pubblica fossero finalizzati allo sviluppo mediante la riduzione dell’imposizione fiscale. Corriamo il rischio di una crisi profondissima, i cui effetti sono destinati a incrementarsi, con la conseguente perdita di porzioni rilevanti di sovranità nazionale, nonché di titolarità di parte dell’economia reale. Si guardi al surplus della bilancia commerciale
tedesca o al fatto che molte nostre aziende strutturalmente indebolite finiscono per essere acquistate da investitori esteri. In un mercato globale il problema non è la proprietà nazionale delle aziende, ma purtroppo questo è certamente un sintomo della crisi dell’economia di un Paese. Non si tratta di disconoscere che il debito e l’eccesso di spesa pubblica siano stati causati da scelte fatte in Italia. È tuttavia necessario concorrere a modificare politiche europee molto poco adatte a sostenere il rilancio del Paese, senza peraltro dimenticare che l’Italia è contributore netto del bilancio dell’Ue, malgrado la sua difficile situazione. Peraltro, è ragionevole pensare che i mercati premino i comportamenti virtuosi, ma questi non sono espressione di un unico rigido schema. È infatti vero che i mercati accetterebbero anche temporanei maggiori sforamenti del deficit, se da questi conseguisse crescita. Se sulla base della politica attuale, il rapporto debito/pil resta uguale e addirittura peggiora, la risposta dei mercati ovviamente non c’è. Non è peregrino affermare che si può provare a guidare piuttosto che essere guidati. 1) I mercati rispondono positivamente non di rado più al crescere del pil che al decrescere del debito; 2) la crescita è innescata da misure di stimolo ben prima che dal rigore; 3) le misure atte a stimolare l’economia (anche finanziate in deficit) non sono quelle invocate da taluni – nuova spesa –ma quelle liberali, ovvero meno tasse.
Per rilanciare il Paese, si richiedono originalità di pensiero e una guida politica di alto profilo: in altre parole, anche posizioni forti in Europa e la modifica di non pochi trattati. D’altro canto, si può sostenere che paradossalmente i nostri esponenti politici non siano stati poco europeisti in passato, ma lo siano stati troppo. E per le ragioni e nei modi sbagliati. La costruzione europea infatti, oltre che una grande aspirazione, è stata anche un grande alibi per la politica italiana. Fra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, quando sono incominciati a venire al pettine i nodi economici della costruzione della nostra democrazia (pensioni e sanità, spesa e debito pubblico), quando si è capito che il nostro sistema politicocostituzionale non funzionava più adeguatamente, si è cercato di far risolvere i problemi a Bruxelles. Con una sorta di dismissione di ruolo, si è divenuti sempre più obbedienti a norme che provenivano da fuori, decise da organi che in sostanza non rispondono elettivamente a nessuno. Una perdita di sovranità che esprimeva la difficoltà del ceto politico a proporre riforme che non fossero indotte dall’Europa e che fu vissuta quasi come una conquista. Insomma, l’europeismo per sentirsi a là page. Questo declassamento non ha aiutato certo il nostro Paese nel sostenere le proprie ragioni con gli altri partner europei. Inoltre, il problema europeo, oltre che economico, è un problema politico. Ci si nasconde troppo spesso dietro a un dito. Si parla spesso del ruolo dell’Unione Europea in politica estera, rivolgendo a essa numerosissime critiche a seguito del mancato decollo come entità compiuta e unita di Stati europei. L’Unione Europea di oggi, va riconosciuto, è divenuta un’alleanza estremamente complessa e problematica, ma soprattutto rischia di perdere il senso iniziale per cui fu creata. Il cammino verso un’identità comune di tipo statunitense è difficilmente perseguibile, mentre i conflitti interni tra gli Stati membri non sono per niente banali. L’Unione Europea, che doveva avere una politica estera forte e coesa e che doveva divenire la prima economia mondiale, non si è mai realizzata. E insieme a essa non si sono nemmeno gettate le basi che avrebbero dovuto garantire la convivenza pacifica tra tutti gli Stati membri. Ovviamente ci sono numerosi e continui tentativi della politica comunitaria di mantenere la coesione politica dell’alleanza, talora con metodi sbagliati. La lotta per il controllo e per la supremazia all’interno dell’Ue è aspra. Alcune grandi potenze europee hanno relazioni di partenariato più importanti, addirittura fuori dal cerchio Ue, e percepiscono molti dei membri nell’Unione come veri e propri rivali politici. Un esempio lampante potrebbe essere l’evidentissima rivalità politica tra la Germania e il Regno Unito o tra il Regno Unito e la Francia. Inoltre, le differenze sono ancora assai marcate tra i Paesi della vecchia Europa (prima dell’allargamento) e i nuovi arrivati. In un ambiente così variegato, dove le potenzialità politico-economiche e militari dei Paesi membri sono così differenziate, la lotta per la supremazia diventa inevitabile. Considerando il fatto che le relazioni internazionali si basano soprattutto (ancor oggi è evidente) sulla legge del più forte, lo sfruttamento dello spazio comunitario per la propria affermazione e per il proprio dominio diventa un comportamento naturale degli Stati sovrani più forti, come la Francia, la Germania e il Regno Unito.  Mentre l’Italia non ha mai avuto la forza per tentare il raggiungimento di un ruolo di riferimento politico-regionale e ha sempre condotto una politica estera molto neutrale, soprattutto all’interno dello spazio comunitario, quasi alla stregua di un Paese debole. Tutte le considerazioni svolte non vogliono sostenere la tesi dell’uscita dall’euro o dall’Europa. L’idea di un’Europa dei popoli, più fortemente coesa, va idealmente condivisa. Occorre però affrontare senza tentennamenti il tema della nostra effettiva capacità d’incidere in questo consesso, chiedendo la modifica di politiche e accordi oggi vigenti che riteniamo in contrasto con i nostri interessi. Altrimenti i nostri sforzi interni rischierebbero di essere insufficienti.

Massimo Blasoni 

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Un’Italia centrifuga e centripeta

Tratto dal libro “Privatizziamo!Ridurre lo Stato, liberare L’Italia” di Massimo Blasoni

Il futuro potrebbe prospettare diverse possibilità: dall’Europa Unita Stato sovrano sino alla dissoluzione di parte degli Stati attuali scomposti in molteplici regioni, anche in assenza di forme federative. Tra un estremo di oscillazione e l’altro del pendolo, quanto la nostra fantasia possa suggerire: l’Unione si dissolve e gli Stati restano tali, oppure vi sono aggregazioni mediterranee e altre del nord Europa, oppure l’Unione resta, ma ricompaiono le valute. Non si può preconizzar il futuro. Da un lato, le spinte della globalizzazione economica e gli strumenti di comunicazione e interazione culturale sempre più rapidi fanno pensare a un futuro in cui l’utilità comune è rappresentata da organismi sovranazionali di gran lunga più incisivi di quelli attuali, dunque con una sovranità nazionale più flebile o assente. D’altro canto, però, si contrappongono spinte regionali e localistiche molto forti e tensioni anche militari fra aree del mondo che potrebbero delineare un futuro completamente diverso da quello che la semplicità e l’efficienza intrinseche alla globalizzazione inducono a credere possibile. Non vi è certezza che il modello europeo attuale non si disgreghi e con esso la moneta unica. Perché, a ben pensarci, l’Unione non è connotata da un ideale politico e valoriale davvero comune, non ha un obiettivo geopolitico, non dispone di una lingua e di una storia che possano essere effettivamente riconducibili ad unum. Quello che tiene insieme l’Unione Europea è un’aspirazione di natura economica che, al susseguirsi di risultati negativi, potrebbe perdere la sua capacità aggregativa.
La domanda che si vuol porre è se a questa vasta gamma di futuri possibili convenga o meno approssimarsi come italiani, cittadini di una medesima Nazione. Effettivamente, la stessa idea di Italia è potenzialmente in dubbio. Si è persa via via la post-risorgimentale consapevolezza di sé e dopo la sconfitta nella Seconda guerra mondiale ci si è nutriti di un atteggiamento dimesso verso il resto del mondo e di un forte senso di inferiorità. A tutto questo non si è quasi mai contrapposto un desiderio di revanche nazionale. Gli stessi risultati economici del dopoguerra sono stati visti più come l’espressione di un nord laborioso e industriale che come un dato davvero nazionale. Le differenze tra nord e sud e il sentimento di sfiducia verso lo Stato nazionale (visto nel Mezzogiorno come incapace di risolvere i problemi e nel Settentrione quale moltiplicatore di quegli stessi problemi, in quanto burocratico e iniquo nella ripartizione delle risorse) sono rimasti un dato cruciale. Anche da qui sono venute le spinte federaliste, rivelatesi però in ultima istanza ben poco utili, perché più apportatrici di nuovi sprechi che capaci di rendere meglio funzionante il sistema. Certo non è impossibile un futuro fatto di Stati regionali e una parte degli italiani si sente veneta, siciliana, piemontese. I più, però, provano una parziale indifferenza verso le proprie provenienze regionali. C’è stata troppa mobilità nel Paese e per larga parte delle giovani generazioni i riferimenti culturali sono altri. È, va ribadito, soprattutto un diffuso senso di smarrimento rispetto al Paese nel suo complesso, a un’Italia di cui non si ravvisano le ragioni culturali costitutive, che non sono più intimamente possedute. Siamo insomma italiani – lo percepiamo, abbiamo tradizioni, etnia comuni – ma fatichiamo a spiegare cosa questo significhi e che senso abbia per noi. Sopravvivono per lo più il particolare e i rapporti familiari, perciò ci facciamo ancor più individui. Conviene però ragionare su un aspetto relativamente alla domanda che si è posta, cioè se convenga o meno approssimarsi al futuro come italiani, cittadini di una medesima Nazione. Innanzitutto, che il futuro sia caratterizzato dall’Unione Europea compiutamente federata o dalla sua disgregazione, esistono realtà statuali molto più coese della nostra che, con ogni probabilità, resteranno tali in entrambe le ipotesi. Ci sono senza dubbio forti spinte localistiche – dalla Catalogna ai Paesi Baschi, dal Veneto all’Alto Adige – ma vi sono altrettanto coese realtà nazionali. S’immagini pure dissolta questa Italia in cui poco crediamo, esclusa l’apolidia, due sarebbero le possibilità perognuno di noi: mutare la propria origine e farsi tedesco o francese così rinunciando alla propria identità personale (sono un individuo, ma ho coscienza di me in forza di un quadro culturale e sociale riconosciuto, si pensi alla lingua) e questo certo non vorremmo; oppure partecipare al futuro come espressioni regionali di un’Italia frammentata: ma non sarebbe vantaggioso. E su questo vale la pena spiegarsi.
Talvolta, essere una realtà statuale di piccole dimensioni è conveniente. Certamente, a paradigma, hanno senso i vantaggi fiscali e bancari di Liechtenstein e Lussemburgo. Se però l’offerta si amplia e diventa patrimonio di molte regioni, la numerosità annulla il beneficio e lo trasforma in standard. E se allora la dimensione regionale non si trasforma in un’enclave vantaggiosa per i potenziali investitori, non è produttiva. Per il resto, essere un piccolo Stato regionale in presenza di grandi Stati nazionali non pare efficiente. Non aiuta la ricerca, la cultura e l’impresa. Le università migliori ben di rado si trovano in piccole realtà geografiche e demografiche. E se il modello a venire dovesse comunque vederci parte di un’Europa federata con un organismo rappresentativo, ovviamente la rappresentanza parlamentare di un Paese grande sarebbe meglio in grado di incidere. Sicuramente in quello scenario conterebbe di più il voto tedesco di quello della Basilicata o del Piemonte. Poi è evidente che, al di là dell’espressione di voto, l’influenza politica ed economica (e lato sensu sottilmente militare) di una grande realtà, nazionale seppur federata, finisce per portare benefici ai propri cittadini e alle proprie imprese, migliori di quanti ne possa conseguire una realtà di modeste dimensioni. Il contesto europeo attuale resta caratterizzato in maniera consistente dalla politica degli Stati che continuano a perseguire vie proprie a sostegno dell’esportazione delle proprie aziende e degli interessi economici dei propri cittadini. E per il momento, a ben vedere, non si può ipotizzare un diverso sviluppo. Con l’eccezione forse della Lombardia, tutte le singole regioni italiane non avrebbero peso sufficiente. Meglio allora varcare la prossima soglia come italiani, cittadini di un unico Paese. Se il quadro futuro sarà l’Unione Europea che conosciamo, la difesa delle istanze di coloro che parlano italiano (la koinè come peculiarità) avrà senso soltanto con una consistenza dimensionale e politica che è impossibile al singolo individuo e che non sarebbe alla portata delle piccole regioni. E, se non sarà Europa, la situazione non muta, perché comunque i competitor economici resterebbero i singoli Stati del globo e le dimensioni regionali ci relegherebbero comunque in un futuro di scarso benessere. Dunque, quale che sia il futuro dell’Europa, «centripeto o centrifugo», ci si deve attrezzare a risollevare la situazione italiana, perché solo come italiani siamo in grado di competere. Si deve insomma entrare nell’ordine di idee che è questo il Paese da riformare ed è questa la comune imbarcazione
per una traversata che, con ogni probabilità, altrimenti non riusciremo a compiere.

Massimo Blasoni 

 

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Cause interne

Tratto dal libro “Privatizziamo! Ridurre lo Stato, liberare L’Italia” di Massimo Blasoni

Tra i motivi della minor competitività imputabili agli imprenditori più che al sistema Italia o alla crisi internazionale, certo svetta la scarsa capacità di adeguarsi al nuovo scenario, senza svalutazione competitiva e con Paesi a più basso costo del lavoro. Questa incapacità è una delle facce della limitata attitudine a innovare nel suo complesso. La nostra impresa fatica di più nei settori ad alto contenuto tecnologico, ci è difficile adeguarci a processi di alta complessità quali quelli che richiede la produzione nel mondo contemporaneo. La difficoltà a sperimentare attiene spesso all’incapacità di puntare decisamente a un rilancio su basi del tutto nuove, restando spesso ancorati a modelli di business superati e di frequente poco produttivi. Innovare, al contrario, vuol dire trovare le risposte giuste a vecchi o nuovi bisogni. Non si tratta solo d’investire denari per svecchiare le tecnologie, ma di individuare un diverso atteggiamento culturale e una nuova creatività. Vuol dire trovare altri modelli e mercati inediti, vuol dire inventare un nuovo modo di fare marketing indirizzato allo scenario globale del tempo in cui viviamo. Le nostre aziende investono poco in programmi di ricerca e sviluppo finalizzati alla creazione di prodotti e servizi davvero innovativi (a volte rischiosi da lanciare sul mercato), preferendo spesso sfruttare le (poche) risorse a disposizione come modo per coprire costi fissi rimasti scoperti o farsi finanziare cose già fatte. Non è un caso se nel periodo che va dal 2006 al 2014, secondo la Commissione europea, la resa innovativa – ovvero la capacità di innovazione – di Paesi come Lettonia, Estonia o Portogallo è cresciuta più di quella italiana. A tutto questo si lega un’altra evidente debolezza: l’incapacità cronica di parte del nostro sistema produttivo di cogliere i benefici della rivoluzione digitale. L’e-commerce in Italia è meno sviluppato che negli altri Paesi europei. Soltanto il 5,34% delle imprese italiane vende online i propri beni e servizi, una performance pari a un terzo della media europea (15,18%). Mancano talora ai nostri imprenditori una visione e una progettualità prodromiche a un’offerta davvero innovativa. Diceva Proust: «L’unico vero viaggio verso la scoperta non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi». Lo si è saputo fare in passato ma non oggi, quando la sfida a livello globale richiede un drastico cambio di mentalità. Il «si è sempre fatto così» non funziona più, nemmeno in azienda. Alla bassa capacità di innovare si aggiunge in parte anche il tema della coincidenza tra proprietà e direzione, tipica del sistema imprenditoriale italiano. Una caratteristica che, pur talvolta positiva, è anche alla base di tutti i noti problemi legati al passaggio generazionale, alle difficoltà di aggregazione e all’utilizzo di un management più preparato nella direzione. Tema complesso, quello della direzione, come quello dimensionale (le nostre aziende tendono a essere relativamente piccole per il mercato globale). Ogni azienda è partita da un’idea: dal sogno di un imprenditore. Poi è cresciuta ispirata dalla visione dell’imprenditore. Nel tempo i maggiori volumi, l’innovazione tecnologica e l’anagrafe hanno reso necessaria la presenza di un manager, più capace di condurre il vascello. È questo uno schema che fa tremare i polsi a quasi ogni imprenditore stia leggendo queste righe. L’idea del passaggio delle consegne, della propria sostituibilità in quanto leader, atterrisce chi spesso ha fatto dell’azienda la propria vita e anche chi pensa, sulla scorta di Einaudi, che a spingerlo «è stata la vocazione naturale e non soltanto la sete di guadagno. Il gusto di vedere la propria azienda prosperare». Certo, il modello italiano è fortemente caratterizzato dalla coincidenza tra imprenditore e manager. Il trasferimento della proprietà e della leadership avviene spesso in famiglia, ma non porta quale conseguenza necessaria il trasferimento delle capacità. Riconoscere questo limite di governance del sistema imprenditoriale italiano non implica, però, che si sposi acriticamente la tesi opposta. Non va sottovalutato, infatti, che il modello manageriale di impronta anglosassone non ha sempre pagato. Da un lato perché alla competenza tecnica del manager non sempre si associa quella capacità visionaria che richiede non solo lo start-up delle aziende, ma anche il loro sviluppo. Dall’altro, perché la fedeltà all’azienda, che è avvertita dall’imprenditore come propria (può essere un orpello ma anche una ragione di profusione di impegno totale), non è sempre una prerogativa del management. Lo sviluppo delle imprese necessita anche di un proficuo utilizzo degli strumenti finanziari. Obbligazioni, borsa, private equity non sono strumenti adeguatamente conosciuti e utilizzati dalla nostra impresa. La nostra borsa è arretrata rispetto a quelle dei Paesi dove hanno sede i principali mercati. Il numero di imprese quotate è di poco superiore a 200 e nel paniere principale di titoli (quello costituito dalle 40 imprese più grandi per capitalizzazione di borsa) figurano soprattutto società bancarie e assicurative, oltre a imprese provenienti dalle privatizzazioni pubbliche (alcune delle quali tutt’ora partecipate dallo Stato).
C’è nei nostri imprenditori una scarsa propensione alla quotazione che non è solamente conseguenza della modesta dimensione delle aziende: è soprattutto culturale. Niente a che vedere con l’enorme mercato finanziario inglese o americano. Per capirci, nel 2013 mentre Piazza Affari registrava scambi per complessivi 540 miliardi di euro, quelli di Wall Street ammontavano a oltre 40mila miliardi di dollari.In Italia il 65% del credito è bancario e il 35% proviene da altri strumenti finanziari (Borsa, obbligazioni, fondi di investimento), mentre negli Stati Uniti il rapporto si capovolge.  In positivo possiamo solo riconoscere che l’uso non così esteso di strumenti finanziari, con eccezione del caso Parmalat e di pochi altri, ci ha preservato dal default di grosse aziende a forte partecipazione di investitori. Nel sistema globale, però, l’utilizzo non eccessivo della leva finanziaria non ci ha preservato né dalle ricadute della crisi dei subprime americani, né dalla Lehman Brothers, né da ogni altra fase della crisi finanziaria. In conclusione la nostra impresa ha luci e ombre e caratteristiche che sono forza e debolezza insieme (le dimensioni, la coincidenza di proprietà e direzione). Ne emerge un quadro, dove lo scenario
internazionale non favorevole e le difficoltà direttamente ascrivibili al nostro Paese hanno come interfaccia la bassa capacità di innovare di molta parte del sistema produttivo. Resta qualcosa da dire però. Tra le molte crisi italiane quella dell’impresa è forse l’unica cui va tributato «l’onore delle armi»: l’unica che pare modesta se confrontata alle altre e l’unica che principalmente dipende da responsabilità non sue. È difficile dire quanti sono gli imprenditori in Italia, ma certo ci sono circa sei milioni di imprese piccole e grandi. Molte sono ancora capaci di crescere ed esportare, di creare sviluppo anche in condizioni di enorme svantaggio rispetto alle loro omologhe che operano in Paesi con meno tasse, burocrazia e tortuosità. Sarebbe irragionevole pensare che la prossima generazione troverà lavoro nella Pubblica Amministrazione o che la crescita economica non avrà come fulcro le aziende private. Si deve dunque scommettere sulle nostre imprese e sul coraggio dei nostri imprenditori.

Massimo Blasoni 

Imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro

Imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro

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