Tratto dal libro “Privatizziamo! Ridurre lo Stato e liberare L’Italia” di Massimo Blasoni
Oltre alle difficoltà rappresentate da aspetti globali della crisi comuni alle altre imprese occidentali, tra le cause esterne – diremo «italiane », non imputabili agli imprenditori – si possono annoverare la carenza di infrastrutture, la bolletta energica, le difficoltà e gli oneri dell’accesso al credito. A tutto questo bisogna aggiungere il costo dei dipendenti e la rigidità delle norme sul lavoro, l’eccesso di burocrazia e la gravosissima imposizione fiscale. Da non trascurarsi, infine, il controverso tema della moneta unica europea. Infrastrutture efficienti – è del tutto evidente – sono una componente chiave nel processo di internazionalizzazione delle aziende, grandi e piccole. Oggi la sfida di intercettare la domanda estera come vettore di crescita è ineludibile, ma per vincerla è necessario affrontare coerentemente lo svecchiamento infrastrutturale del Paese, dall’energia alla rete informatica, dalla logistica ai trasporti. Secondo «Il Sole 24 Ore», in Italia un chilometro di Tav costa il quadruplo che in Francia: 62 milioni contro i 16,6 dei francesi, quantunque i tempi di costruzione siano assai più dilatati. Da quanti decenni la Salerno-Reggio Calabria è un cantiere a cielo aperto? I lavori sono iniziati negli anni Sessanta e fino a oggi i suoi circa 400 chilometri sono costati suppergiù 10 miliardi di euro. Ma le opere iniziate, finanziate e rimaste incompiute in Italia sono oltre 550: l’autostrada Roma-Latina, la Ragusa-Catania, la Bari-Matera, solo per fare qualche esempio, assieme a decine di bretelle e tangenziali incompiute. Non si tratta soltanto di costruire più e meglio ma anche, e soprattutto, di meglio collegare tra loro e al sistema europeo le reti esistenti: aeroporti, ferrovie, porti, strade. Per quanto riguarda le infrastrutture energetiche, secondo il World Economic Forum (che ha analizzato il livello di performance delle infrastrutture energetiche in 105 Paesi), l’Italia si piazza al 43esimo posto, tra gli ultimi in Europa. Si scontano il mancato sviluppo di nuove fonti di generazione e nuovi mezzi di approvvigionamento, oltre al mancato completamento del mercato interno dell’energia: armonizzare i criteri di definizione delle tariffe, favorire la concorrenzialità tra gli operatori esistenti, permettere l’ingresso di operatori nuovi. In aggiunta, vi sono i costi energetici. Un kilowattora costa alle imprese italiane mediamente 0,18 centesimi di euro, circa il 30% in più rispetto alla media dei Paesi dell’Unione. Il costo elevato dell’energia penalizza soprattutto la piccola e media impresa. La bolletta di un artigiano può arrivare anche all’80% in più rispetto alle tariffe agevolate di cui godono le grandi imprese nel nostro Paese, a dispetto dei dettami del protocollo di Kyoto: chi inquina paga. Intanto l’economia ristagna e le nostre imprese non competono. Le infrastrutture sono ovviamente anche quelle informatiche. Secondo i dati di netindex.com, siamo 93esimi al mondo per velocità di download domestica, dopo la Grecia. In Italia la banda larga raggiunge potenzialmente il 99% dell’utenza. Peccato che si tratti di una tecnologia ormai superata se confrontata con quelle più recenti – e assai più rapide – come la Nga (Next Generation Access), che in Italia copre solo il 21% del territorio rispetto al 62% della media Ue. I limiti e la sostanziale inefficienza della nostra rete infrastrutturale si pongono come principale fattore di freno, per le nostre aziende, per quanto riguarda gli scambi commerciali con il resto del mondo. A ciò si aggiunga che il sistema Italia nel suo complesso risente pesantemente della mancata capacità di usare i fondi europei dedicati alle infrastrutture: un misero 12%. Vanno anche ricordati il peso del costo del lavoro e dell’imposizione fiscale. Il costo del lavoro non è certo l’elemento chiave della competitività. Tuttavia, nell’Italia del 2014 in termini assoluti un lavoratore costa mediamente 28,3 euro l’ora. In Slovenia 15,6, in Portogallo 13, in Slovacchia 8,5. Se si passa all’analisi del costo del lavoro nei Paesi Ue fuori dalla moneta unica, si rileva che in Ungheria un lavoratore costa 7,3 euro l’ora e in Romania 4,6. Certo, ci sono Paesi in cui il costo del lavoro è maggiore di quello italiano. Francia, Germania, Belgio, Danimarca, Irlanda, Olanda, Austria, Svezia e Finlandia pagano i lavoratori più di noi. Ma se al costo o all’efficienza del lavoro, di cui si è parlato in precedenza, si somma quello della pressione fiscale diretta e indiretta, il nostro Paese è certamente il più penalizzato. Secondo Doing Business 2015, la nostra total tax rate, ovvero l’insieme di tutte le imposte dirette e indirette che gravano sull’azienda, è in assoluto la più alta: 65,4%, come già sottolineato. Quella dell’Austria si attesta al 52%, in Germania è pari al 48,8%, mentre in Portogallo è molto più bassa della nostra: 42,4%. Un peso fiscale così elevato non solo ci fa perdere attrattività per gli investimenti esteri, ma favorisce lo spostamento delle nostre attività economiche all’estero. Un tema da non sottovalutare, inoltre, è quello dell’accesso al credito e del suo costo. Le nostre banche sono spesso sottocapitalizzate, e quindi secondo le regole di Basilea 3 con un core tier 1 troppo basso per larghissimi impieghi. Inoltre, i circa 400 miliardi sui 2.000 dello stock complessivo che sono in mani estere e suscettibili di risentire dello spread e del rischio Italia hanno reso più difficile per le aziende italiane finanziare gli investimenti, anticipare il credito commerciale, sviluppare. Mentre in Paesi più sicuri affluivano ingentissime risorse che si trasformavano anche in impieghi per le banche volti non solo agli investimenti in debito sovrano, ma anche per famiglie e imprese, da noi la concessione del credito si è andata largamente restringendo negli ultimi anni. Di norma, un imprenditore italiano si finanzia a tassi mediamente più elevati di un competitor tedesco. E la ricaduta in termini di costo dei prodotti è evidente. Se è vero che non a caso il nostro sistema finanziario si definisce «bancocentrico», poiché imperniato per varie ragioni sul ricorso al prestito bancario, tale dato ha rappresentato la croce e delizia delle nostre realtà produttive già dal boom economico degli anni Cinquanta e particolarmente negli ultimi anni, durante i quali si sono potute distinguere almeno tre fasi diverse che hanno caratterizzato il rapporto banca-impresa. Fino alla prima ondata della crisi, quella abbattutasi in Europa a partire dal 2008, le nostre banche hanno garantito credito in misura abbondante, sfruttando innegabilmente pure l’opportunità di finanziarsi dall’esterno, grazie anche all’ingresso nella moneta unica. Tra la prima e la seconda ondata della crisi il credito ha conosciuto una fase di razionamento, ma inferiore a quello che si sarebbe avuto se i nostri istituti avessero scommesso come molti altri sulla
«montagna di carta finanziaria» che si era sviluppata così rapidamente e su scala globale a partire dalla fine degli anni Novanta. Rimanendo fedeli al loro «mandato», quindi, le nostre banche hanno evitato la prima ondata della crisi, per poi invece subire drasticamente la seconda, quella caratterizzata dalla sfiducia nei debiti sovrani, e dalla contemporanea crisi interna dell’economia reale. La crisi economica, con l’impressionante crollo del Pil italiano del 2009 (oltre il -5%) ha portato a un progressivo e incessante incremento dei crediti deteriorati (conclusosi forse solamente nel 2015) e a una rilevante erosione del capitale bancario.Proprio nel momento di maggior necessità delle nostre imprese, le banche si sono ritrovate a soffrire il sostanziale blocco sull’approvvigionamento interbancario, a ridurre la concessione del credito e a utilizzare poi i prestiti generosi di Mario Draghi verso gli impieghi al momento più redditizi: il rimborso di prestiti in essere verso altri intermediari, soprattutto stranieri, e l’acquisto di titoli di Stato,specialmente italiani. Questa situazione ha prodotto una terza fase. I numeri mostrano, tra il 2011 e il 2014, un calo dei prestiti alle imprese non finanziarie in termini nominali per oltre 100 miliardi, che corrispondono a oltre il 10% del «massimo» storico, pari a circa 900 miliardi, e non includono gli effetti né dell’inflazione né dei prestiti deteriorati che di conseguenza non possono essere oggetto di rientro dalle banche.
Anche in questo caso, nell’impossibilità di introdurre concretamente altri e più evoluti strumenti, le possibilità concesse agli imprenditori più capaci sono state limitate a quelle di un ampliamento dell’accesso all’emissione di obbligazioni. Nel contempo, si è rilevato ancora il sostanziale mancato ricorso (ancorché spesso preannunciato) alle disponibilità della Cassa depositi e prestiti, che convoglia l’enorme stock di risparmio postale verso governo, enti e altre imprese pubbliche, e solo limitatamente ed eccezionalmente (in rapporto alle proprie possibilità) verso iniziative dirette a sostegno del credito al mondo produttivo. Ora resta da verificare quali saranno gli effetti del quantitative easing della Bce sul credito bancario a famiglie e imprese. A tutto il 2015, secondo i dati Bankitalia, l’erogazione di credito è rimasta per le imprese non finanziarie al di sotto di quella dell’anno precedente. È pleonastico ricordare i costi per l’impresa derivati dall’asfissiante burocrazia: tema presente in ogni capitolo. Bisogna però accennare a quanto pesino i ritardi dei pagamenti delle pubbliche amministrazioni: si tratta, malgrado gli sforzi del governo, di circa 70 miliardi nel 2015, pari a quasi il 5% del pil. Un costo stimabile in sei miliardi a carico delle aziende, considerando il costo medio del capitale su dati Bankitalia. Le aziende si devono infatti finanziare per far fronte ai ritardi di pagamento e devono pagare fornitori e lavoratori. L’incidenza di questi costi sulle singole forniture è pari al 4,2%.Un’impresa italiana paga il ritardo della pubblica amministrazione quattro volte un’impresa francese e sette volte un’impresa tedesca. Insomma, lo Stato paga quando vuole, generando nel sistema delle imprese costi altissimi e impropri. Last but not least. Resta poi il tema euro. È una delle questioni più complesse. Certamente l’apprezzamento dell’euro sui mercati internazionali e l’impossibilità di compensare le fluttuazioni facendo politica valutaria rappresentano un limite per le imprese del nostro Paese, abituato alla svalutazione competitiva. I dati della bilancia commerciale e il notevole incremento dei volumi delle esportazioni tedesche sembrano sottolinearlo, visto che la Germania si appresta, per l’ottavo anno consecutivo, a sforare il 6% del surplus commerciale imposto dall’Unione. Nel 2014 la bilancia commerciale tedesca si è chiusa con un attivo esorbitante, pari a 216 miliardi di euro. A puro titolo di esempio, l’attivo della bilancia commerciale italiana, che nello stesso anno ha registrato il valore più alto dal 1993, è stato di
42,8 miliardi. Un’Unione dove, a fronte della moneta unica comune, per larga parte dei partner non si è realizzata un’armonizzazione del peso delle imposte e del costo del lavoro, e dove il gravame finanziario e l’ammontare complessivo del debito sono così diversi, certo non rappresenta, almeno sul piano teorico, l’optimum. Resta però da dire che non vi è controprova su quali sarebbero stati gli effetti per le nostre imprese se si fosse mantenuta la valuta nazionale. Stare fuori dall’euro sembra premiare l’Inghilterra, almeno dal punto di vista della crescita, ma questo non fa prova. Ovviamente da annoverare tra le cause esterne c’è anche lo scenario internazionale. Non solo con riferimento alla crisi finanziaria internazionale, ma anche alla crescita di numerosi Paesi, che nel saldo tra maggiori consumi e maggiori esportazioni hanno registrato un incremento maggiore delle esportazioni.